Sul riccio
Il suo viso esprime ferma risolutezza. I suoi gesti sono brevi e precisi. La sua mano non trema. Eppure c’è in gioco la sua stessa vita in questa storia. È uno scrittore e, questa sera, si propone di scrivere la sua autobiografia. Sul tavolo si trova riunito tutto il materiale necessario, della carta, una matita, una gomma, un riccio.
Che non c'entra nulla qui, quest’ultimo, avete ragione voi. La cui presenza incongrua è persino un vero mistero. Ma l’effetto sorpresa svanisce presto. Spazio alla collera. Questo riccio è una calamità. Per quanto così dotato lui stesso per l’introspezione viziosa e il ripiego compulsivo su di sé, contraria e ostacola l’ambizioso progetto autobiografico dello scrittore.
Autentico libro dei libri, Sul riccio affronta così il tema spinoso per antonomasia, quello che soggiace a qualsivoglia opera letteraria: l’ossessione della pagina bianca, il famigerato blocco creativo.
Proprio sotto gli occhi increduli del lettore, lo scrittore e protagonista sfida apertamente la propria paura, di cui riuscirà a dirci per oltre duecento pagine.
Il romanzo che ispira: dedicato ai veri amanti della lettura, e a tutti gli aspiranti scrittori.
Paese perduto
“È un paese sperduto” si dice: non c’è espressione più giusta. Ci si arriva solo perdendosi. Nulla da fare, nulla da vedere. Sperduto sin dall’inizio forse, talmente sperduto prima ancora di esserlo stato che questa perdita è solo la forma della sua esistenza. Ed io, stupidamente, sin dall’origine, cerco di preservarlo. Volevo fosse se stesso, immobilizzato nella propria perfezione, e che ad ogni istante fosse possibile riempirsene.
Due fratelli, che abitano in città, possiedono in un cascinale isolato una casa di famiglia. Uno dei due ha appena ereditato da un cugino che viveva come un selvaggio nella propria fattoria. Al loro arrivo, vengono a sapere della morte di una ragazza del paese. Gli ossequi hanno luogo l’indomani.
Come nelle antiche tragedie, l’azione si svolge nell’arco di due giornate invernali, nel cuore di montagne deserte. Gli dei che la reggono sono al tempo stesso grotteschi e terrificanti. Si chiamano Alcol, Inverno, Merda, Solitudine. Questi non impediscono, però, che i loro sudditi diano prova di vera grandezza.
Ciò che viene seppellito, in questo romanzo di impronta autobiografica, sono gli ultimi contadini. E anche la bellezza, di cui non si riesce mai a elaborare il lutto.
Tra la vita e la morte, il vissuto e la mancanza, il ricordo e l’oblio.
Marino il mio cuor
La prima volta che lo vidi, Marino non aveva ancora respirato, era pallido e livido come dopo uno sforzo sovrumano, un grosso spavento o un dispiacere. Mi dissero che aveva risolutamente, per aprirsi un varco verso la luce, rifiutato di guardare per terra, che, risolutamente, aveva rovesciato la testa in direzione della luce stessa, verso il cielo.
In questa cronaca libera e senza date, che l’autore compone in occasione della nascita del primogenito Marino, tutto succede per la prima volta.
L’autore riesce ad abbandonare il punto di vista dell’adulto e del padre, per sposare quello di un osservatore terzo. Presta quindi un linguaggio inedito e meraviglioso a Marino, che inizia a scoprire il mondo; un mondo nuovo, profondamente cambiato, che si appresta ad accogliere Marino.
L'ultima fiammata del Surrealismo

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