Incisioni del traduttore n° #634
23 Maggio 2020

La Schiava, dopo il terzo bicchiere che ti si serve, rende liberi. Qualità sostenibile certificata dalla campagna al vino.

Ah! à tel point coupé du monde, il ne me reste que de longs soupirs, tandis que la fenêtre embuée de mon petit bureau devient de plus en plus minuscule, mon stylo acéré imbu de venin et de liberté.

-5 [Finita questa frase, me ne starò col fiato sospeso contando fino a cinque (fino a giovedì 28 maggio), per farmi passare il singhiozzo… che mi aveva fatto perdere il conto… alla rovescia dei giorni… che mancano all’uscita di Sine die: cronaca del confinamento di Éric Chevillard.]

CAPITOLO 2: L’ILLUSIONE DELLA TRADUZIONE
È un'altra pia illusione (dentro di me lo so bene) quella a cui mi sono attaccato durante il mio confinamento. La stessa illusione a cui – statene pur certi – cercherò d’ora in poi di stare aggrappato il più possibile come a un morbido guanciale, ogni mattina, nella dolce vanità del dormiveglia.
C’è da capirlo, però, il traduttore. Cosa volete, abbandonato anima e corpo alla sua missione impossibile: protagonista e comparsa, perennemente in bilico tra l’apparire e lo scomparire, essere E non essere. E se c’è tanto sacrificio – chiedere al mio osteopata –, così tanta abnegazione – chiedere ai miei cari, confinati come me, che non vedo quasi più –, significa che deve valerne la pena, o almeno quell’innamorato cieco del traduttore deve crederlo.
In nome di qualcun altro, del Grande Autore Immortale: avvicinarvisi fino a bruciare, per operare in quell’istante una sorta di fusione, anzi la magia giubilante della ricreazione, nel quadro del “vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili” – diceva Blanchot del Menard di Borges. Tanto gli basta, per affermare la propria identità. Ma è un paradosso bello e buono! Tanto più che, come dire, di solito il testo è là, sul suo tavolo, quando il traduttore ci si mette: finito, rilegato, pubblicato! eh già!
In questa circostanza, però, ci sono delle attenuanti. Perché l’inchiostro era ancora fresco. Sì, Éric Chevillard in persona spediva giorno dopo giorno a G. Finardi – chiedere a uno psicologo perché il traduttore si mette a parlare in terza persona – la cronaca quotidiana della sua esperienza del confinamento: ogni giorno dapprima, poi ogni due giorni, infine ogni tre. A G. l’arduo compito di stare al passo, di seguire il testo nel suo compiersi – e senza sbavare sul foglio –, un testo dalla duplice genesi allora, che in qualche misura sembrava scriversi letteralmente traducendosi.
Quale vanità! sentire di contribuire in qualche modo alla scrittura, attraverso una riscrittura quasi (come fosse un dettaglio!) contemporanea all’atto creativo da cui necessariamente muove! Quale vanità pensare, anche solo per un istante, che il libro si stia scrivendo sotto i propri occhi, con lo scorrere delle pagine, annerito sotto le nostre dita sporche di inchiostro…
Ma sono sicuro che perdonerete tanta vanità. Il traduttore dopotutto cos’è, se non il primo lettore dall’opera?


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